“CANTO DI UNA JANARA”, un racconto di Lucia Giaccio per ricordare le donne vittime di violenza

Oggi i miei giorni di palude trovano fine; oggi, a 41 anni, sono morta per mano di un uomo, un uomo del quale ho apprezzato un gesto umano tanto tempo fa.

Sono sempre stata una precaria, e non solo nel lavoro; la sensazione è quella di un insetto sospeso al un filo di una ragnatela: per quanto saldo sia, tanto da non lasciarti cadere, ti attanaglia e ti soffoca fino a toglierti il respiro.

La mia precarietà inizia nel grembo materno, mia madre è troppo concentrata ad ascoltare quelle voci, a spegnere quei suoni che le devastano la mente, ad allontanare l’odore e il sapore del suo carnefice. Così, mentre per il mondo è lì il principio vitale dell’uomo, per me altro non è che una cavità, un’insenatura tra il petto e la sua anima tormentata.

Sono venuta al mondo come tutti, nuda e vuota, ma nonostante la povertà ho avuto sempre di che vestirmi e ho letto talmente tanto da non avere quasi più spazio dentro di me. Ho visitato le grandi capitali europee, ho attraversato oceani, ho chiesto agli Aztechi con quale grande matita avessero mai disegnato nel deserto, ho visto la Terra affacciandomi dalla Luna; ma non ho mai lasciato il mio gretto e provinciale paese di un entroterra dimenticato da Dio.

La mia casa aveva poco, molto poco di una casa e in essa non si sentiva quasi mai l’odore di buon cibo e di famiglia. Ma l’accoglienza era considerata un obbligo di natura sacrale, e la generosità un dono divino, virtù che ho portato con me per sempre. Eppure non sono mai riuscita a liberarmi da quella tremenda sensazione di inadeguatezza e solitudine. Quante volte avrei voluto urlare davanti a quelle mura che puntualmente mi si innalzavano davanti, avrei dato cazzotti fino a rompermi le mani, a sanguinare irreversibilmente, ma non ne ho mai avuto la forza, o forse il coraggio, e non ho travato nessuno a darmene.

Quasi tutte le settimane mi recavo in biblioteca, leggere era per me il solo modo per riuscire a sopravvivere. Attraversavo la parte più bella, alta ed elegante della città e spesso, affascinata da quei monumentali palazzi mi fermavo a sognare e a raccontarmi storie misteriose, accadute in quelle innumerevoli stanze, che immaginavo vuote, fredde, austere, severe e grigie come le mura che avevo davanti.

I miei occhi incrociarono i suoi per caso, fissi su di me. Come accade spesso per una sognatrice, avevo levato gli occhi al cielo e lui era li, imponente al suo balcone, sorridente, sicuro di se: una crepa tratteggiata nel muro che poi diventa squarcio, attraverso cui entrano luce ed aria; le mura caddero d’improvviso davanti a me, e con loro i libri che avevo ritirato in biblioteca, che invano cercavo di proteggere agitando braccia e gambe goffamente.

Non perse tempo a raggiungermi; lo osservai mentre scivolava fuori da quel portone semiaperto, cercando di capire quale dei due fosse più maestoso ed elegante. La sua voce era rassicurante, le sue movenze raffinate, il suo sguardo disarmante: si presentò, porgendomi distintamente la mano e i libri che aveva raccolto da terra.

I miei giorni non erano più gli stessi, un tumulto di emozioni si affacciava nella mia vita, la riempiva. Lui era più vecchio e migliore di me, in ogni cosa, ma mi ripeteva sempre che non era cosi, mi adulava, mi lusingava, mi amava.

Ci sposammo un anno dopo e lentamente, lui, assunse modi dispotici da padrone di casa, abusava della sua figura possente per rendermi invisibile e non perdeva mai occasione di ridimensionare la mia persona, anche in presenza di altri; qualche volta ho cercato di difendermi, ma da cosa poi?

Mi piegava alla sua volontà e presto mi ritrovai, amaramente, io stessa a rinnegare le mie opinioni. La sua cieca ossessione per i beni materiali cresceva sempre più, e con tutta la violenza che lo caratterizzava, voleva e ottenne un erede, un germoglio di bellezza che nessun brutale calpestio può mai estinguere.

Tre “N” possono considerarsi protagoniste attive nella mia quotidianità: “Nullità”, “Nullafacente”, “Nullatenente”. Per paura di mio marito accettavo cose inaccettabili, rinunciavo a cose irrinunciabili, comprendevo cose incomprensibili. Ho consolidato le sue insane convinzioni, tralasciando i suoi gesti violenti, le sue divertite espressioni alle mie marmoree paure. E poi è arrivato il giorno in cui ha saziato una sua storica promessa: picchiarmi.

Provo un immenso rammarico per tutto ciò che avrei dovuto difendere e che non ho avuto l’audacia per farlo.

Per giorni ho cercato di scrivere la mia storia e denunciarla; mio figlio mi chiede sorridendo se sto scrivendo “La Divina Commedia”, lo accarezzo e gli rispondo che sto scrivendo la fine di questa commedia, che di divino ha soltanto lui…

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