Come nasce la grassofobia
Da una parte i corpi affusolati e tonici di pochi eletti. Dall’altra una distesa di volti paffuti e forme burrose. I primi destano ammirazione e invidia, i secondi disapprovazione, compatimento, spesso derisione.
Il body shaming verso pancette e rotondità varie (ma anche altri tipi di imperfezioni fisiche, nei tritacarne dei social può finire di tutto) non è l’ennesima stortura di questi anni. È, al contrario, frutto di un pregiudizio antico quanto l’uomo. Perché il sovrappeso, fatta salva qualche epoca particolare, è sempre stato visto come un difetto caratteriale (debolezza, ingordigia) se non addirittura una colpa da espiare.
Che senso ha e da dove arriva la condanna verso questa specifica condizione fisica?
[Il Body shaming è una “moda” che affonda le radici nei secoli]
«Guai a voi, uomini pingui […] – tuona il profeta Amos settecento anni prima di Cristo – ascoltate questa parola, vacche di Basan, che state sul monte di Samaria, voi, che opprimete gli umili, che maltrattate i poveri, che dite ai vostri signori “Portate qua, che beviamo”» (Amos, 4, 1-3; Soggin 1982: 167-168).
Non è meno severo Isaia che mette gli obesi tra i malvagi, perché la loro voracità oltrepassa i limiti del lecito (Isaia 3, 4-6, 16-24).
E a gettare benzina sul fuoco degli anatemi veterotestamentari è anche Platone che considera la gastrimargia, ovvero la follia del ventre, un crimine contro la polis (Gorg. 462b-465b; Resp. 3, 404d) Un disordine alimentare che diventa indizio certo di un carattere antisociale, di un egoismo bulimico. (Gorg. 462b-465b; Resp. 3, 404d)
La condanna platonica riecheggia nelle parole di Padri della Chiesa come Clemente Alessandrino, secondo il quale la golosità è la follia della gola e l’intemperanza alimentare è la follia del ventre (De Francesco et al. 2011: 431 e sgg.)
Tertulliano considera un corpo magro alla stregua di una corazza che difende il cristiano di fronte al tribunale divino. E poi aggiunge che Dio «non dà la carne a peso né lo spirito in base a una misura», per concludere che «più facilmente entrerà attraverso la porta stretta della salvezza una carne più esile; resusciterà più velocemente una carne più leggera, durerà più a lungo nella sepoltura una carne più secca» (Ibidem: 334).
Oltretutto agli occhi del moralista di Cartagine, le persecuzioni che a quel tempo attendevano coloro che si erano convertiti alla fede di Cristo, suggeriscono l’opportunità di una dieta prudenziale in quanto «un cristiano grasso sarà più necessario agli orsi e ai leoni, forse, piuttosto che a Dio, sicché dovrà diventare magro anche in vista di lottare contro le bestie» (Ibidem: 334).
[ Saggio “Umiliati e Obesi” di Marino Niola – Facoltà di Antropologia Culturale – Università Orientale di Napoli ]
C’è stato un tempo, poi, in cui “essere grassi” era non solo ok, ma addirittura un vanto. Parliamo del Medioevo, quando la carestia e le malattie erano all’ordine del giorno: in questo scenario le uniche persone capaci di sfuggire alla morsa della fame erano gli aristocratici, che potevano permettersi la dispensa piena e per questo ostentavano una corporatura più generosa, in barba a chi non poteva concedersi il “lusso” di mangiare.
Per non parlare delle donne, da sempre vittime della concezione secondo cui l’ampiezza del bacino fosse direttamente proporzionale alla loro capacità di generare figli, per cui più una donna era grassa, maggiore sarebbe stato il numero della prole concepita.
[Sovreppeso e obesità nel Medioevo]
Flagellato da pesti, guerre e carestie, il Medioevo si trasformò per certi versi nell’età dell’oro per le rotondità. Come spiega lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, «il grasso maschile e quello femminile erano segno di benessere, sicurezza e ricchezza». Lo dimostrano i termini coniati in quel periodo: “Bologna la grassa“, cioè felice; e “popolo grasso“, a intendere la parte più ricca di Firenze. E anche la gotta, malattia circolatoria dovuta all’eccesso di carne, in certe epoche fu quasi un segno del privilegio di classe.
Fatta esclusione per i poveri magri e affamati e per i guerrieri: “Colui che è troppo grasso non può esercitare l’ufficio di cavaliere“, tuonava il teologo catalano Raimondo Lullo ai tempi di Dante. Di fronte ai sontuosi banchetti rinascimentali e agli anatemi lanciati dai medici (“si muore più di ingordigia che di peste“, si lamentavano alla corte inglese dei Tudor) iniziarono a circolare i primi trattati dietetici, molto simili agli attuali manuali per dimagrire. Fra questi, i Discorsi della vita sobria (1550) scritto dal nobile veneziano Luigi Alvise Cornaro. Nel 1602 il frate domenicano Tommaso Campanella immaginò una società utopica in cui alla fine le persone grasse sarebbero state eliminate. Nella sua “Città del sole“, repubblica platonica della virtù, uomini e donne dovevano mostrare ai magistrati incaricati di decidere quali coppie avrebbero dovuto accoppiarsi per garantire una discendenza più attraente.
Con l’avvento della Rivoluzione industriale la medaglia si è rovescia: l’adipe in eccesso divenne simbolo del potere con cui i padroni vessavano gli operai e il popolo. La nascita delle industrie dietetiche, nell’Ottocento, non fece altro che alimentare la stigmatizzazione del grasso, concepito soprattutto come mancanza di volontà e forte pigrizia.
Inoltre lo stigma del grasso si spostò sul corpo delle donne.
Il punto più basso fu toccato nella seconda metà dell’Ottocento con le teorie razziste di Cesare Lombroso. L’antropologo associò la pinguedine femminile a un’immoralità innata, soprattutto di “ottentotte, africane ed abissine, che ricche e pigre diventano immensamente grasse“. La catena di associazioni culminò nella tesi secondo la quale “nelle carceri e nei manicomi le pazze sono spesso assai più corpulenti degli uomini“.
[Il Body shaming è una “moda” che affonda le radici nei secoli]
Nel 1926 il medico americano Leonard Williams, autore di un best seller come Obesity, bolla addirittura di egoismo le persone troppo grasse perché impongono agli altri lo spettacolo indecente della loro taglia over size (Williams 1926).
È questo il grande snodo biopolitico che sta dietro le rappresentazioni dell’obesità di ieri e di oggi. L’idea che si tratti di un accumulo eticamente e politicamente scorretto. Di un aggiotaggio calorico i cui costi finiscono per ricadere sulla collettività. In questo senso c’è un filo rosso che lega le maledizioni bibliche della pinguedine alle fatwe salutistiche del nostro tempo.
[ Saggio “Umiliati e Obesi” di Marino Niola – Facoltà di Antropologia Culturale – Università Orientale di Napoli ]
Così il Novecento, che ha imposto a uomini e donne il valore della magrezza e della forma fisica come modello estetico, ha semplicemente inasprito stereotipi già radicati. E non solo. Gli antichi pregiudizi hanno trasmesso l’idea che la mancanza di autodisciplina e di autocontrollo sia una “colpa” da espiare i cui costi medici ricadono sulla collettività. Il rischio è trasformare, come accaduto in passato, la derisione verso le persone in sovrappeso in una nuova forma di razzismo.
L’obesofobia sta assumendo i toni integralisti e intolleranti di una vera e propria persecuzione. Quasi che il sovrappeso sia una macchia morale e un inestetismo sociale da cancellare (Niola M., 2015 Homo dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari, il Mulino, Bologna). Di fatto il salutismo politically correct e il razzismo ortoressico sono due facce complementari di una medesima sindrome da contaminazione.
Secondo una ricerca Gallup intitolata Obesity Linked to Long-Term Unemployment in U.S., pubblicata il 18 giugno del 2014 e condotta negli USA, emerge che più a lungo si è disoccupati, più probabilità si hanno di diventare obesi e di conseguenza di sviluppare malattie cardiovascolari. Fin qui niente di sorprendente, se non fosse che lo stesso studio rivela che i datori di lavoro evitano di assumere soggetti sovrappeso, proprio perché li considerano ad alto rischio di malattie cardiache e circolatorie. E dunque i disoccupati a lungo termine hanno molte meno possibilità di essere reimpiegati. È il classico serpente che si morde la coda. La causa che diventa effetto e viceversa.
Dall’indagine emerge in filigrana che il corpo è diventato il parametro dominante, il principale termometro della persona e della sua identità (Marzano M., 2002 Penser le corps, PUF, Paris.; Volpato C., 2017 Psicologia del maschilismo, Laterza, Bari-Roma).
Così si valuta il corpo e non la testa. Una prassi riduzionista, minorizzante, stereotipante riferibile a quel maschilismo egemone di cui parla Chiara
Volpato (2017) che ha sempre riguardato le donne e che ora viene estesa anche ai maschi. Riducendo la dimensione dell’essere alla sua dimensione meramente fisica (Marzano 2002). In una società che ha sempre meno criteri e valori ideali e si affida a parametri materiali e a indicatori quantitativi, quasi biometrici, ad essere decisiva non è più la persona ma l’efficienza della macchina corporea. Stiamo tornando insomma all’idea dei lavoratori come braccia. Anzi come sistema cardiovascolare. Ovvero come nuda vita (Esposito 2002).
Il che dimostra che se l’obesità è un grave problema sociale, l’obesofobia sta diventando una gravissima forma di discriminazione.
Ricercatori australiani e del Regno Unito hanno dimostrato che la discriminazione nel mercato del lavoro continua ad esistere con una ricerca pubblicata sull’International Journal of Obesity. Lo studio mostra che le donne obese non hanno molte probabilità di ottenere un lavoro quando si trovano di fronte concorrenti non in sovrappeso. Inoltre le donne obese vengono pagate meno rispetto alle loro colleghe magre (Kelly T., Yang W., Chen C. S., et al., 2008, «Global Burden of Obesity in 2005 and Projections to 2030», in International Journal of Obesity, XXXII, pp. 1431-1437, London)
Sociologi e psicologi sociali hanno riscontrato, fra l’altro, un legame preoccupante e concomitante tra obesofobia e altre forme di discriminazione come l’autoritarismo, l’omofobia e il razzismo (Volpato 2017). È la prima volta che ricercatori identificano un legame esplicito il livello di pregiudizio grassofobo e la discriminazione degli obesi sul lavoro. E come se non bastasse la ricerca dimostra che il senso di superiorità che alcuni individui hanno rispetto agli obesi è dovuta al convincimento che questi ultimi in fondo non meritino di ricevere gli stessi privilegi e opportunità rispetto a chi grasso non è.
Così chi aspira ad un posto di lavoro non deve combattere solo con la crisi economica o surclassare in abilità e competenze i suoi concorrenti, ma deve soprattutto fare i conti con l’ago della bilancia. Perché, come ha mostrato uno studio recente del Size Acceptance Movement, il 93% dei responsabili delle risorse umane ammette di essere influenzato dalla taglia degli aspiranti da selezionare.
Lo scienziato Chris Crandall ha elaborato una vera e propria teoria secondo la quale il pregiudizio antigrasso nasce dal fondo individualista e puritano del conservatorismo americano. Che considera l’autodisciplina e l’autocontrollo dei doveri sociali e morali. E dunque il sovrappeso diventa automaticamente l’ammissione pubblica di una colpa e di una propensione rrefrenabile al peccato. Un indizio di pigrizia, inaffidabilità, svogliatezza, sgradevolezza. E perfino di scarsa intelligenza.
In conclusione, l’etica ha lasciato il passo alla dietetica.
E le persone in sovrappeso si trovano a ricoprire il ruolo di vittime predestinate di un accanimento sociale, medicale e politico. Capri espiatori di una società bulimica, che esorcizza le sue paure mostrandosi desiderosa di tutelare la salute dei suoi cittadini.
Siamo nel giugno 2019 e la giornalista inglese Tanya Gold pubblica sul The Telegraph un articolo dal titolo “I manichini obesi stanno vendendo alle donne una bugia pericolosa”.
Tanya Gold si scaglia contro Nike per l’uso di manichini plus size nel loro negozio di punta londinese.
Secondo la Gold, però, questi crimini contro l’umanità non sono solo plus-size: “Il nuovo manichino Nike non ha la taglia L, che è una taglia normale, e nemmeno la XXL – un peso elevato, sì, ma non tale da uccidere una donna. È immensa, gargantuesca, enorme. È piena di grasso”.
Mettiamo subito in chiaro una cosa. Il manichino plus-size, pur essendo una rappresentazione inclusiva e realistica di molte donne e un passo avanti nell’industria della moda, è prima di tutto una decisione commerciale intelligente. Nike ha lanciato una collezione plus-size nel 2017. Da quando sono stati aggiunti questi manichini, le ricerche di “Nike” e “plus size” sono salite alle stelle. Come marchio che non è nuovo all’uso di dichiarazioni controverse per aumentare le vendite, una mossa del genere non dovrebbe sorprendere nessuno.
Tutto ciò annulla l’effetto positivo che questi manichini hanno avuto sulle donne che finalmente si sentono soddisfatte da uno dei marchi più importanti del mondo?
Non è un segreto che le donne siano tenute a uno standard di bellezza irrealistico, che tende a influenzare drasticamente tutta la nostra vita. Ma usare quest’idea come base per giustificare il fat-shaming è esilarante e fuorviante.
In qualche modo, sulla strada della sua argomentazione sul perché i manichini in sovrappeso non dovrebbero essere ammessi in pubblico, la Gold ha delineato la ragione stessa per cui essi rappresentano un faro di speranza per molti: perché non sono mai stati presentati prima.
Quel manichino plus-size si trova orgogliosamente (o il più orgogliosamente possibile, essendo acefalo e non vivo) accanto a un manichino di taglia XS in una sede importante di un marchio globale. Si tratta di una cosa importante per molte persone, il che significa naturalmente che qualcuno ha cercato di smontarla.
Ma la Gold è troppo occupata per accorgersene, perché è qui fuori a condurre una crociata contro tutto, dalla Nike all’industria pubblicitaria, dal porno ai videogiochi, fino a Kim Kardashian, per aver dettato ingiustamente le apparenze delle donne…. tutto mentre scrive un articolo che tenta di dettare ingiustamente le apparenze delle donne.
“Non vorrei mai che una donna odiasse se stessa per quello che vede nello specchio“, scrive la Gold. A meno che quella donna non sia in sovrappeso e non cerchi abiti atletici da indossare per poter cambiare la situazione. O per rilassarsi in casa perché sono comodi. O per indossarli perché è una f*ttuta umana e le è permesso comprare abbigliamento sportivo a prezzi esagerati proprio come al resto di noi.
Non sappiamo chi abbia bisogno di sentirselo dire, ma anche le persone in sovrappeso hanno bisogno di abiti da allenamento. Solo perché una persona è grassa non significa che non sia sana. Le donne grasse possono correre maratone, sollevare pesi, fare sport e vivere la loro vita e magari prendere a pugni in faccia le donne che cercano di dire loro il contrario, se ne hanno voglia. E anche se non sono sane, non spetta a una donna con un word processor e l’accesso a un editor miope decidere cosa indossare!
Forse alla Gold non è mai venuto in mente che questi manichini, questo tipo di rappresentazione mainstream da parte di un marchio di fitness, potrebbero dare alle persone in sovrappeso la fiducia necessaria per iniziare a fare esercizio fisico. La strada verso il benessere è scoraggiante e irta di ostacoli, Dio non voglia che Nike cerchi di renderla un po’ più agevole per chi è già propenso a evitarla.
L’indignazione della Gold si basa sul fatto che questo movimento di “Fat Acceptance” impedirà alle persone in sovrappeso di provare a cambiare il loro stile di vita, ma non vuole nemmeno dare loro i mezzi per farlo. Sembra quasi che non si preoccupi tanto del loro benessere quanto di essere una stronza intollerante.
Odi Nike? Allora non fare acquisti da Nike. Odi le persone plus-size? Allora non essere “plus-size”. Ma prova anche a non essere un enorme pezzo di mer*a, già che ci sei.
[The Telegraph’ Published A Gross Fat-Shaming Piece About Nike By Mary Kate Fotch]
[L’odio per i grassi comincia dai manichini – Marino Niola]
QUI, QUI, QUI alcuni articoli in italiano sull’argomento
QUI un video in italiano
QUI un altro contributo video
L’obesità si presenta oggi sotto forma di ’panico morale”, cioè un “episodio, una condizione, una persona o un gruppo di persone” che negli ultimi tempi è stato “definito come una minaccia ai valori e agli interessi della società””. Consideriamo l’obesità come “un problema nazionale piuttosto che individuale… non solo per le evidenze epidemiologiche, ma anche per i significati ormai saldamente legati al girovita dilatato”.
La nostra preoccupazione per le implicazioni sociali dell’obesità sulla salute e sulla ricchezza nazionale contribuisce a rendere l’obesità una malattia epidemica.
In altre parole, la nostra ansia precede la malattia, non viceversa.
La nostra attuale ansia per un’epidemia globale di obesità, dunque, secondo Gilman, non è altro che “l’iterazione più recente di un’ossessione per il controllo del corpo e la promessa di salute universale” che ha caratterizzato la modernità.
La teoria di Gilman è sicuramente interessante tuttavia, la maggior parte del libro riguarda gli Stati Uniti e l’intero libro si basa quasi esclusivamente su fonti in lingua inglese. Pertanto, la pretesa di Gilman di parlare a nome di una comunità globale è , nella migliore delle ipotesi, piuttosto debole.
Gilman potrebbe non essere riuscito a descrivere l’obesità nella storia, ma ha sicuramente indicato i percorsi attraverso i quali altri potrebbero farlo in futuro.
QUI un sommario del libro in inglese
QUI un articolo in italiano sul libro