Le donne nell’antica Grecia non contavano praticamente niente.
Sì, erano considerate libere, ma non partecipavano attivamente alla vita sociale e politica, anzi, il loro spazio di attività era ridotto alla dimensione domestica e familiare e a tutto ciò che ruotava attorno a essa.
Eppure, nella tragedia greca la situazione si ribalta: ecco che le donne assurgono al ruolo di protagoniste, diventano personaggi centrali, forti, attraversati da inquietudini e tormenti, capaci di compiere azioni rivoluzionarie, ribelli, a tratti eroiche e a tratti addirittura spaventose e malvagie.
Le donne del teatro greco sono donne tormentate e inquiete perché secondo gli antichi greci l’emotività era una caratteristica prettamente femminile ed è per questo che i grandi drammaturghi utilizzano le figure femminili per esplorare le passioni e le emozioni, normalmente precluse agli uomini.
Siamo di fronte a un paradosso: le donne greche sono insieme niente e tutto, non possono avere un ruolo nella società ma sono protagoniste nel teatro e acquistano ruolo e voce interpretate da attori uomini.
Queste donne ci aiutano, ancora oggi a scardinare certi stereotipi ancora dominanti, primo fra tutti quello della donna angelo del focolare che si trasforma in una donna forte, capace di ribellarsi ad una società androcentrica e patriarcale.
Tra le tante figure tragiche, durante lo Youth Exchange “Gender Equality Trough Theatre and Arts” abbiamo approfondito la conoscenza di Elena, Clitemnestra, Penelope e Medea.
Nell’opera di Euripide, Elena, incolpevole della sua bellezza, viene usata da Era, che ne crea un clone per vendicarsi di Paride e far scatenare la violentissima guerra di Troia. Non è, dunque la vera Elena ad aver scatenato la guerra, anzi, lei viene portata da Ermes in Egitto. Qui, dove anche Menelao si ritrova a causa di un naufragio, avviene l’intreccio del falso col vero, ed Elena riacquista la sua dimensione di bellezza di origine divina e la sua metis, la sua intelligenza risolutiva, quella che oggi chiamiamo problem solving, e riesce con l’inganno a salvare se stessa e Menelao. La sua figura , quindi, esce dallo stereotipo negativo della donna bella e stupida che tanto male ha causato per acquistare la dimensione della donna bella e capace di prendere in mano una situazione critica e salvare se stessa e l’uomo che ama.
Clitemnestra è da sempre stata percepita come la donna assassina del marito, Agamennone, una donna crudele e vendicatrice. Ma da dove nasce questo desiderio di vendetta? Dal fatto che Agamennone , pur di avere venti favorevoli alla partenza della sua nave decide di sacrificare sua figlia Ifigenia ad Artemide. La stessa dea, però, salva la fanciulla avvolgendola ne suo velo e Clitemnestra non saprà mai che la fanciulla è stata salvata. Ecco, dunque, che emerge in lei la metis di madre, ovvero quell’intelligenza che si attiva quando l’amore o il dolore ci dicono di trovare un altro modo di stare al mondo. Clitemnestra uccide Agamennone e con questo gesto rifiuta ogni dovere di obbedienza passiva verso il marito. E in questo modo, la donna impotente di fronte al marito che la inganna con la scusa di obbedire agli dei esce da una lettura patriarcale del mito.
Penelope ci è stata sempre presentata come la donna che soffre per la lontananza del marito, piange per vent’anni e aspetta fino a che non ci sia la notizia di una morte certa. Ma lei non è solo questo: custodisce il regno, cresce un figlio, tiene a bada i Proci con l’inganno della tela e alla fine, mette alla prova anche Ulisse con le domande sul loro letto nuziale. La sua metis è quella di una donna che legge la realtà intorno a lei e trova una strada confacente al suo obiettivo, il ricongiungimento con il suo amato.
E infine, Medea, la nipote della maga Circe, la principessa barbara che lascia la sua terra, la sua famiglia, i suoi privilegi per amore di Giasone, la donna che con i suoi incantesimi aiuta l’amato a conquistare il vello d’oro.
Questa donna si annulla per amore ma l’amato la ripaga ripudiandola. Ecco dunque che la sua metis prende campo spezzando il tabù dell’istinto materno come connaturato al genere femminile. Medea uccide i figli per vendetta ma non dobbiamo pensare alla sua metis come capacità elaborare una vendetta orientata all’infanticidio! Nel mito, infatti, le azioni violente indicano la scelta di allontanarsi da una visione patriarcale che non tiene in considerazione i bisogni e il valore delle donne e costituiscono uno spazio per la realizzazione del sé.
Il tratto comune a queste donne è la metis, la loro intelligenza femminile, quella saggezza che si sprigiona se stimolata da un forte amore o da un violento dolore e che permette di discernere cosa è importante tra ciò che conta veramente per la propria interiorità e le cose fatue e caduche.
Ed è proprio questa metis che noi donne di oggi dovremmo recuperare e rendere operativa nella nostra vita e nel nostro essere. Solo attivando questa forma di empowerment saremo in grado di uscire dalle catene degli stereotipi sulle donne e dai gangli della società androcentrica.