Le parole della discriminazione
Dal Novecento in poi, nelle raffigurazioni del corpo si è privilegiato il “culto del bel corpo”, sia maschile che femminile, longilineo e scultoreo.
Nel tempo, poi, i mass-media e la pubblicità, hanno iniziato a veicolare il messaggio che la bellezza interiore fosse lo specchio di quella esteriore, e che quindi “persona grassa=persona negativa”.
Gli esempi di personaggi di finzione il cui aspetto esteriore grasso rifletteva la bruttezza interiore sono numerosissimi.
Proviamo a pensare a quelli più famosi, che conoscono tutti, a partire dai bambini: la Regina di cuori di Alice nel Paese delle Meraviglie, la terribile Ursula della Sirenetta, il remissivo e sottomesso Spugna in Peter Pan, la lamentosa Tristezza in Inside Out: tutti personaggi sì di fantasia, ma facenti parte dei cattivi o di quelli ingenui e bonaccioni che hanno contribuito a instillare l’idea che per essere persone positive bisognasse essere anche magre.
Avete mai visto un eroe grasso?
Con il passare del tempo e seguendo l’onda della pubblicità, la cultura dominante ha fatto suo il pensiero che l’aggettivo “grasso” fosse non solo negativo, ma identificasse un’intera categoria di persone.
Grasso ha smesso di essere una parola ed è diventato etichetta, una lettera scarlatta con cui bollare chi non rientra nei canoni estetici socialmente accettati, portando con sé delle conseguenze: le persone grasse hanno meno chances di trovare lavoro, spendono molto di più per i trasporti (dovendo acquistare più di un biglietto) e sono vessati dal peso del giudizio di chi incolpa loro stessi della loro condizione.
“E’ solo mancanza di forza di volontà nel dimagrire”, “Sono pigri”, “Dovrebbero mangiare più sano”, “Si rovinano la salute” sono solo alcune delle frasi rivolte alle persone grasse.
Chiariamo dunque una cosa: magro non vuol dire sano e grasso non vuol dire malato. La salute è il dito dietro il quale ci si nasconde dopo aver discriminato qualcuno per la sua massa corporea, senza considerare che il paradigma persona magra=persona in salute è del tutto sbagliato e che la dieta si sia rivelata un’iniziativa fallace e per nulla salutare.
Cosa succederebbe se usassimo la parola “grasso” come termine descrittivo neutro?
Perché e come dovremmo farlo nella nostra vita quotidiana?
Negli ultimi decenni, sempre più scienziati hanno sottolineato gli effetti dannosi della vergogna e della discriminazione contro i corpi grassi e altri corpi non normativi, collegando la vita nei sistemi di oppressione direttamente a problemi di salute mentale (depressione, ansia, pensieri suicidi, ecc.), disturbi alimentari e aumento della mortalità .
Il linguaggio e i messaggi trasmessi svolgono un ruolo significativo nel proiettare questi pregiudizi sulle persone, perpetuando e rafforzando stereotipi che non sono né inclusivi né veritieri. Il linguaggio può essere usato come strumento di discriminazione basata sul corpo, contribuendo all’esclusione degli individui in base al loro aspetto. L’esposizione regolare a frasi offensive ed espressioni dispregiative crea un ambiente sfavorevole e un’immagine deviata di sé stessi, portando a profonde conseguenze psicologiche ed emotive.
Tuttavia, il linguaggio può anche essere un potente strumento per sfidare i sistemi oppressivi. In particolare, in molte parti del mondo, i gruppi oppressi hanno utilizzato il linguaggio come parte significativa del loro attivismo. Pertanto, vogliamo incoraggiare la riduzione della retorica negativa che circonda la grassezza, a partire dalla normalizzazione della parola “grasso”.
Questo approccio è ispirato dagli attivisti grassi e dal movimento di accettazione del corpo, iniziato negli anni ’60 negli Stati Uniti, i quali hanno iniziato ad usare il termine “grasso” come termine descrittivo neutro per protestare contro i pregiudizi esistenti.
Sebbene il linguaggio comune non possa essere cambiato velocemente, crediamo che la normalizzazione graduale dell’uso neutro di questa parola e ed il suo utilizzo senza intenti offensivi (simile ad altri aggettivi come “corto”, “alto”, “flessibile”, ecc.) sia un passo essenziale verso l’accettazione di corpi non normativi.
Usandolo intenzionalmente nelle conversazioni quotidiane e nei contesti neutri, possiamo ridurre lo stigma che circonda il peso corporeo e sostenere coloro che affrontano regolarmente la vergogna del corpo e la discriminazione. Insieme ad altre azioni cruciali, desideriamo spianare la strada a una comprensione più completa della diversità e dell’inclusione del corpo.
[Call me fat*! – Ieva Miltina – Flourish NGO]
Il Collettivo Europeo per la Body Liberation, sulla base dell’esperienza dell’Associazione lettone Flourish NGO, ha elaborato un glossario dei termini e dei concetti usati all’interno del Movimento per la Fat Acceptance, nato alla fine degli anni sessanta con lo scopo di lottare per eliminare lo stigma sociale nei confronti dei corpi grassi.
Questo glossario è redatto in lingua inglese e il team di Move2Europe APS si sta occupando di tradurlo in Italiano.
Tuttavia, la traduzione non è così semplice come potrebbe sembrare.
Dopo aver chiesto una consulenza linguistica all’Accademia della Crusca riguardo all’introduzione nel dizionario della Lingua Italiana di alcune parole relative alla discrimianzione basata sul peso e, più in generale, sul corpo, ci è stata inviata una nota relativa alla parola “Body Shaming” e alla quasi impossibilità di tradurla in italiano a causa della scarsa flessibilità della nostra lingua rispetto all’inglese.
La traduzione italiana, infatti, richiederebbe l’uso di perifrasi estese che appesantirebbero notevolmente le frasi e , comunque, non renderebbero pienamente giustizia al significato originario.
Ciò che abbbiamo potuto verificare, comunque, è la presenza, quali neologismi, nel Vocabolario on line Treccani, delle parole inglesi Body Positivity e Fat Shaming, oltre alla già citata Body Shaming, ma anche della traduzione italiana dell’inglese Fatphobia ovvero Grassofobia.
Allargando un po’ il campo di ricerca, troviamo, sempre nel Vocabolario on line Treccani, le parole Abilismo , che è il derivato formale dell’anglo-americano Ableism e Salutismo che è la traduzione italiana di Healthism.
Che cosa si intende per abilismo? E quale impatto ha sulla vita delle persone con disabilità?
Il termine viene fatto risalire ai movimenti per i diritti delle persone con disabilità negli Stati Uniti e in Gran Bretagna negli anni 60 e 70 del Novecento nonchè ai Disabilities Studies sviluppatisi in Gran Bretagna tra gli anni 70 e 80 e rappresenta una nuova categoria per descrivere i processi di esclusione sociale e di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità (G. Wolbring, 2008). Abilismo è un termine ampio che include le norme e i codici spesso inconsapevoli che modellano le nostre rappresentazioni sulla disabilità.
Questa parola pone al centro la costruzione sociale dell’abilità, che è stata a lungo considerata come un “dato per scontato” ed evidenzia il modo in cui le aspettative e le credenze sull’abilità dei corpi vengono costruite socialmente, riconosciute e sostenute a livello culturale: basti pensare per esempio all’abilità di lavorare, di ottenere un’istruzione, di essere parte della società e di essere considerati cittadini a pieno titolo (Contours of Ableism: The Production of Disability and Abledness, F. K. Campbell, 2009).
L’abilismo può assumere diverse forme: può essere benevolo, ostile, ambivalente o interiorizzato. Non a caso Wolbring inquadra l’abilismo come termine generico per altri -ismi e che non può essere separato dall’etero/sessismo, dal razzismo, dall’omofobia, dal colonialismo, dal patriarcato, dal capitalismo. In questo senso, l’abilismo rappresenterebbe l’intersezione di diverse discriminazioni. Parlare di abilismo può essere fruttuoso non solo per comprendere le disabilità, ma anche per porre l’attenzione verso altre differenze e/o gruppi sociali svantaggiati.
Questo nucleo di considerazioni teoriche è alla base del progetto di ricerca Ismi (An Intersectional Study on Multiple Inequalities).
La denominazione Ismi, che declina al plurale il suffisso -ismo proprio dei termini che identificano le forme di discriminazione, sottolinea l’adozione di un approccio intersezionale, che pone in stretta relazione l’abilismo con le altre forme di discriminazione e ne mette in luce sovrapposizioni e somiglianze.
Seguendo il motto “Nulla su di noi senza di noi“, la prima ricerca empirica sugli atteggiamenti abilisti in Italia ha coinvolto attraverso una metodologia di ricerca partecipativa un gruppo di persone con disabilità esperte di esperienza e/o per attività di studio e di ricerca sull’abilismo. Il processo di ricerca e i suoi primi risultati sono confluiti nella pubblicazione Nulla su di noi senza di noi. Una ricerca empirica sull’abilismo in Italia (FrancoAngeli, 2022), scaricabile gratuitamente.
[Corpi disabili e abilismo di Rosa Bellacicco Silvia Dell’Anna Ester Micalizzi Tania Parisi]
Il pregiudizio e la discriminazione che le persone con disabilità devono affrontare riflettono un complesso sistema di credenze ampiamente condivise e mantenute attraverso varie pratiche e politiche istituzionalizzate. Tali credenze vengono alimentate dagli stereotipi.
La narrazione che coinvolge le persone con disabilità si muove all’interno di due poli estremi: una rappresentazione pietistica/compassionevole e un’altra eroica/ispirazionale.
Nella narrazione pietistica/compassionevole le persone con disabilità vengono considerate profondamente sfortunate, vengono associate loro fragilità, debolezza, incompetenza e un’incapacità di fondo distribuita su diversi livelli. La disabilità assume quindi una connotazione esclusivamente negativa, bisognosa di pietà e compassione. Questo porta a comportamenti abilisti e uscite davvero poco felici, come il classico “poverino/a” accompagnato da sguardi tristi.
La narrazione eroica/ispirazionale, di contro, eleva le persone con disabilità a supereroi che, nonostante la vita complessa e tutte le difficoltà legate alla disabilità, riescono comunque a vivere felicemente.
La vita delle persone disabili diviene, comunque, un termine di paragone negativo, attraverso il quale le persone non disabili riescono a sentirsi più forti, intelligenti e valide, relegando le prime a un ruolo di subordinazione. Questo perché la disabilità e il pregiudizio che da sempre la accompagna spaventano. Considerare le persone disabili come “altro da sé” permette alle persone non disabili di evitare di affrontare i propri bias e fare i conti con le proprie paure: tutti i lati negativi vengono proiettati su queste figure estranee, percepite come “diverse”, creando una rappresentazione superficiale e dicotomica che rafforza tale marginalizzazione, puntando a definire ciò che è normale e ciò che non lo è.
In una società patriarcale basata su un sistema gerarchico e piramidale, molte persone non disabili fanno fatica a percepire il loro privilegio, a rendersi conto dell’abilismo intrinseco nelle realtà in cui vivono. Questo genera spesso un’inconsapevole sensazione di superiorità nei confronti delle persone con disabilità, che porta a considerare le loro istanze irrisorie e indegne di attenzione. L’incapacità di guardare al proprio privilegio impedisce la messa a fuoco delle oppressioni altrui, creando una vera e propria negazione attuata a livello sistemico.
Tale mancata validazione delle istanze e delle voci delle persone disabili induce le persone non disabili a parlare in loro nome o a credere di sapere cosa sia meglio per loro.
Chi ha familiarità con la terminologia delle varie correnti femministe conoscerà certamente il termine mansplaining, coniato in seguito a un articolo firmato da Rebecca Solnit: cioè quando un uomo spiega cose a una donna che ne sa più di lui sminuendola in quanto donna. Lo stesso fenomeno possiamo applicarlo alla disabilità con l’analogo termine ablesplaining, cioè quando una persona non disabile, con paternalismo e condiscendenza, prova a spiegare aspetti legati alla disabilità a una persona disabile. Succede allora che una persona con disabilità si ritrovi ad ascoltare lunghi discorsi su come “non sia il caso di arrabbiarsi”, sul fatto che “non esista nessuna discriminazione” o in generale su che cosa sia giusto pretendere e cosa no. Si tratta di un altro modo in cui l’abilismo si manifesta attraverso i comportamenti.
Una società che non prevede ruoli attivi assunti dalle persone disabili e le sminuisce attraverso comportamenti abilisti non può neanche prevederne la crescita e lo sviluppo. Ne consegue un immaginario collettivo che infantilizza le persone con disabilità, relegandole al ruolo di eternǝ bambinǝ. Per esempio, alcuni classici comportamenti che derivano da tale infantilizzazione sono l’abitudine di fermare le persone con disabilità chiedendo informazioni sul loro corpo («hai fatto un incidente o sei così dalla nascita?»), non parlare direttamente con loro ma con la persona più vicina, usare un tono di voce infantile come se ci si rivolgesse a unǝ bambinǝ, dare del “tu” e usare il nome proprio e non il cognome (ciò toglie autorevolezza alla persona disabile), toccare il corpo o gli strumenti che usa per spostarsi senza chiedere il permesso, fino ad arrivare a frasi offensive del tipo: «Come sei coraggioso a uscire di casa». Tutto ciò può portare poi a vere e proprie molestie, anche sessuali.
Le conseguenze di questi stereotipi sono di vasta portata: barriere architettoniche e mancanza di accessibilità, opportunità di lavoro limitate, discriminazioni legate all’istruzione, alla genitorialità e alla custodia dei figli. È vero, oggi le vite delle persone con disabilità non sono più considerate “indegne di essere vissute”, come succedeva durante il periodo nazista che ha portato al programma per la soppressione delle persone con disabilità (Aktion t4), ma nei fatti c’è ancora molta strada da fare per dimostrarlo.
[Che cos’è l’abilismo di Marina Cuollo e Sofia Righetti]