Le parole della discriminazione
Al giorno d’oggi non si può parlare di nutrizione e benessere senza che qualcuno faccia riferimento alla Diet Culture, la cultura della dieta. Se ne parla sui social media, ne parlano le celebrità, ne parlano soprattutto gli adolescenti, evidenziando che i genitori non tengono determinati alimenti in casa o anche che i loro allenatori , in palestra o sui campi sportivi, chiedono loro di evitare gli zuccheri perchè la Diet Culture lo impone.
Ma solo perché un termine è ampiamente diffuso non significa che sia universalmente compreso. Sebbene molte persone pensino che la cultura della dieta riguardi praticamente solo le diete, in realtà è molto più complessa e di vasta portata. La cultura della dieta è un intero sistema di credenze che associa il cibo alla moralità e la magrezza alla bontà, ed è radicata nella convinzione (molto diffusa) che ogni individuo abbia il pieno controllo e la responsabilità della propria salute.
Ma la cosa peggiore è che la cultura della dieta è così radicata, soprattutto nella società occidentale, che spesso non la riconosciamo nemmeno.
Ma che cos’è la Diet Culture?
Sebbene non esista una definizione ufficiale di cultura della dieta, Christy Harrison, scrittrice e giornalista americana con un master in salute pubblica nonchè nutrizionista certificata e counselor in alimentazione intuitiva, la definisce come un sistema di credenze che “adora la magrezza e la equipara alla salute e alle virtù morali”, promuove la perdita di peso e il mantenimento di un peso basso come un modo per elevare lo status sociale e demonizza alcuni cibi e stili alimentari elevandone altri. La cultura della dieta, inoltre, secondo la Harrison, “opprime le persone che non corrispondono alla sua presunta immagine di ‘salute’, danneggiando in modo sproporzionato le donne, i trans, le persone con corpi più grandi, le persone di colore e le persone con disabilità”.
“C’è l’idea che la cultura della dieta riguardi solo le persone che scelgono di mettersi a dieta, ma non è così”, sostiene Sabrina Strings, docente di sociologia all’Università di Santa Monica – California, che da anni studia la cultura della dieta e la grassofobia. “La cultura della dieta è la cultura di cui siamo tutti impregnati; è la convinzione che possiamo controllare il nostro corpo in base a cosa e quanto mangiamo, e pone un giudizio morale sul cibo e sui corpi”. In altre parole, ci fa credere, consapevolmente o meno, che certi cibi e certi corpi (magri, di solito bianchi) siano buoni, mentre altri cibi e altri corpi (grassi, spesso neri o non bianchi) siano cattivi.
[“Diet Culture’ Isn’t Just About Smoothies and Food-Tracking Apps” di Christine Byrne ]
Quali sono le radici delle Diet Culture?
La storia delle diete è una storia abbastanza recente. La prima citazione relativa alla dieta intesa, secondo la sua etimologia greca, come regola alimentare, lo troviamo nella Fisiologia del gusto di Jean Anthelm Brillat-Savarin; pubblicata nel 1825, con una nota di Honoré de Balzac, nell’opera si leggeva: “Ogni cura dell’obesità deve cominciare con questi tre precetti di teoria assoluta: sobrietà nel mangiare, moderazione nel sonno, moto a piedi o a cavallo. Fra le carni preferite il vitello e il pollo; del pane mangiate solo la crosta”.
Successivamente, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, i protestanti americani iniziarono a equiparare pubblicamente la privazione con la salute e la salute con la moralità. L’esempio più famoso è probabilmente quello dell’ecclesiastico Sylvester Graham, che promuoveva una dieta vegetariana insipida a base di pane, cereali integrali, frutta e verdura come metodo per sedare gli impulsi sessuali, migliorare la salute e garantire la virtù morale.
Nel 1863 William Banting, impresario di pompe funebri londinese, in piena era vittoriana, fece pubblicare a sue spese la Lettera sulla pinguedine (Letter on corpulence) in cui proponeva una dieta dimagrante – da lui stesso sperimentata con successo – con pochi carboidrati e molti grassi: di fatto, era la prima dieta di tipo chetogenico. Il primo contributo in ambito medico-biologico arrivò doppo qualce decennio, nel 1890, da parte di Emmet Densmore, un medico inglese che soffriva di forti dolori di tipo lombalgico; Densmore pubblicò “Il cibo naturale dell’uomo” (The natural food of man), in cui propugnava uno stile alimentare puramente vegetariano a base di frutta e noci, latte, uova e formaggi.
L’idea dominante è che la magrezza e la restrizione alimentare equivalgano alla bontà.
Ma per questa idea ci sono anche radici di tipo razziale : in età coloniale, infatti, i dominatori europei utilizzarono le dimensioni del corpo per sostenere l’inferiorità dei neri.
“Durante l’apice della schiavitù nel XVIII secolo, c’erano importanti europei che credevano che essere magri e controllare ciò che mangiavano li rendesse moralmente superiori”, sostiene la dottoressa Strings nel suo libro “Fearing the Black Body: The Racial Origins of Fat Phobia (Temere il corpo nero: le origini razziali della grassofobia). “E quindi gli africani erano considerati intrinsecamente inferiori, perché tendevano ad avere corpi più grandi, il che veniva equiparato alla pigrizia”.
Queste convinzioni profondamente dannose, ovviamente, non sono vere, ma hanno completamente plasmato il nostro modo di pensare al cibo, alla salute e al corpo. Secondo la dottoressa Strings, “medici e scienziati hanno preso l’idea che i corpi magri e bianchi siano superiori e hanno trovato il modo di sostenerla con la scienza”. In altre parole, secondo la dottoressa, molti di questi esperti hanno iniziato la loro ricerca con il presupposto distorto che la grassezza fosse sempre negativa e malsana.
Oltre che nella scienza della salute, questo presupposto errato si è radicato anche nel capitalismo. “È un’attività estremamente redditizia dire alle persone di perdere peso e fingere di sapere come farlo”, afferma la Strings. “In realtà non c’è modo che tutte le persone grasse possano diventare magre, e lo sappiamo tutti, ma è comunque un’industria multimiliardaria”.
A partire dai primi anni del ‘900, infatti, le diete cominciano a spopolare!
Nel 1918, infatti, viene pubblicato il libro Dieta e salute (Diet and health) della dottoressa Lulu Hunt Peters, che approfondiva per la prima volta il concetto di dieta ipocalorica e che divenni il primo best seller relativo ai regimi alimentari.
Qualche anno dopo, nel 1925, sempre negli USA, l’azienda produttrice di sigarette Lucky Strike diffuse una serie di manifesti con lo slogan “Reach for a Lucky instead of a sweet” (Cerca una sigaretta, invece di un dolce); per quanto possa oggi apparire insensato, la Lucky Strike propose a tutti gli effetti una sorta di dieta delle sigarette (cigarette diet) e lo fece per alcuni anni in numerose riviste di moda e quotidiani, con modelli femminili snelli che mettevano in guardia dai pericoli del consumo di zucchero. Da notare che in realtà – già allora – fumo di sigaretta e zucchero non erano assolutamente alternativi: lo zucchero veniva aggiunto al tabacco per rendere il fumo meno aspro e aumentare l’inalazione si nicotina e delle altre migliaia di sostanze della combustione. Sempre negli anni ‘20 negli USA uscì il libro di Hebert Shelton “Il Sistema igienista” (Human Life, its philosophy, and laws, 1925), con la proposta di uno stile alimentare basato su digiuno e cibi crudi, il precursore dei successivi movimenti per l’igiene naturale e delle diete crudiste. Le ultime proposte degli anni ’20 furono davvero singolari: una dieta ispirata alle popolazioni Inuit (Artic diet) e dei biscotti dimagranti (Slimming Biscuts). Nel 1928 l’antropologo canadese Vilhjalmur Stefansson, propose ai nordamericani il modello alimentare degli Inuit, ovvero una dieta quasi priva di carboidrati, con un fortissimo consumo di prodotti animali, come pescato, caribu, grasso di balena e uccelli acquatici; la dieta artica, però, non ottenne molto successo in un periodo in cui l’alimentazione a base vegetale riscuoteva molto favore; i “biscotti dimagranti”, invece, promettevano di essere uno spuntino salutare, con una leggera azione lassativa, utile per perdere liquidi. Seguirono poi, la dieta del pompelmo, detta anche dieta di Hollywood, e la dieta del dr. Kellogg (priva di carne, uova, zucchero raffinato, alcool, tè, caffè, tabacco, cioccolato, permettendo solo piccole quantità di latte e formaggio).
Gli anni ’60 vedono la comparsa da un lato di diverse diete di moda e diete lampo, dall’altro il ritorno di modelli alimentari del passato. La maggior parte delle nuove diete nascono negli USA, che nel 1962 avevano un tasso di obesità del 13%, di poco superiore a quello attuale dell’Italia (10%). In un Paese in cui si erano proposte per il dimagrimento sia le sigarette sia le gomme da masticare, perché non avrebbe dovuto farlo anche l’industria dello zucchero? L’ha fatto. Per opporsi alla diffusione dei dolcificanti artificiali i grandi produttori statunitensi finanziarono una massiccia campagna nella quale si sosteneva che piccole quantità di zucchero avrebbero dovuto far parte di piani dietetici per limitare l’appetito e sopprimere attacchi di fame. Si fa fatica a crederlo, ma lo zucchero – il più potente stimolo per l’insulina – veniva consigliato per non ingrassare. I risultati si sono visti, sia per l’obesità successiva sia per l’epidemia di diabete. Nel 1963 arrivò una dieta di grande successo e la propose una casalinga statunitense in sovrappeso. Jean Nidetch – dopo la solita trafila delle diete fai da te – aveva seguito un regime ipocalorico, perdendo 9 chili; per mantenere i risultati ottenuti aveva fondato un gruppo di supporto e lo aveva definito le “sentinelle del peso”: era nato il sistema Weight Watchers, ancora oggi molto seguito. Nel metodo Weight Watchers si paga l’iscrizione, si riceve una dieta standardizzata che assegna un punteggio agli alimenti (in base alle calorie) e si partecipa a incontri nei quali ci si confronta altre persone che vogliono perdere peso. La dieta non personalizzata di Weigh Watchers può essere considerata l’antesignana delle successive diete a punti. Gli anni ’60, infine, sono anche gli anni in cui è tornata in auge la dieta o filosofia macrobiotica, in qualche modo collegata alle culture millenarie dell’Asia. Nel 1961, il giapponese Nyioti Sakurazawa, divulgatore autodidatta (conosciuto in Occidente come G. Ohsawa), scrisse il libro Zen Macrobiotic, cui ne seguirono molti altri, diffondendo le prime teorie sulla salubrità della dieta macrobiotica, basate sul modello di vita dei monaci buddisti. Il modello macrobiotico prevede un largo uso di cereali, legumi e semi oleosi; niente cibi industriali con preferenza ad alimenti di produzione naturale; niente zucchero e dolci, sì a frutta e verdure (con l’eccezione del gruppo della Solanacee: pomodori, melanzane e patate); prodotti della pesca preferiti alla carne, poco latte e derivati, no caffè, poco vino; la scelta dei cibi viene effettuata bilanciando cibi acidi-Yin ricchi di potassio (latte e derivati, frutta, tè e spezie) e cibi alcalini-Yang ricchi di sodio (sale, carne, pesce, pollo, uova).
Nel 1981 uscì un libro che raccontava il forte dimagrimento – circa 30 chili – di Judy Mazel; fu subito un grande successo e diede il via alla dieta di Beverly Hills.
Nel regime di Judy Mazel – detto anche dieta delle combinazioni alimentare – si mangiava una solo gruppo di alimenti per volta: i primi 10 giorni solo frutta, la seconda decade alla frutta si aggiungeva mais e prodotti da forno; nella la terza decade, infine, si inserivano anche carne e pesce. Il principio secondo il quale per assimilare correttamente il cibo servono gruppi di enzimi differenti – che potrebbero ostacolarsi in caso di errate combinazioni alimentari – è suggestiva, ma priva di qualsiasi fondamento scientifico. L’altra dieta famosa degli anni ’80 è la dieta del cavernicolo, uscita nel 1985 e abbastanza simile all’attuale paleo-dieta. Di questo regime, ancora oggi molto seguito, ricordiamo due aspetti critici; primo, ricostruire il menù giornaliero dei nostri antenati non è per niente semplice, dato che attraversano i millenni solo le ossa degli animali e alcuni semi; secondo, la composizione di tutto quello che si mangiava allora è molto diversa da oggi, poiché la domesticazione di piante e animali ha cambiato quasi tutto il cibo attuale.
Gli anni ’90 hanno visto venire alla luce due diete che hanno riscosso un notevole successo e sono ancora molto utilizzate: la dieta chetogenica e la dieta a zona. Il regime chetogenico è legato alla drastica riduzione di carboidrati – non più di 50 grammi al giorno – con forte aumento dei grassi (dal 25-30% consigliato al 75-80%) come fonte primaria di energia; in tal modo si forza l’organismo – cellule nervose escluse – a utilizzare i grassi come fonte di energia, con conseguente produzione di corpi chetonici, che andranno smaltiti, in quanto tossici, attraverso i reni.
Sono tre gli aspetti critici delle diete chetogenetiche. Innanzitutto, sono regimi alimentari che richiedono menù non semplici da seguire, dato che appena si supera la quota minima di carboidrati, la chetosi si interrompe e riprende l’utilizzo energetico degli zuccheri. Il secondo limite è la difficoltà a proporla per periodi lunghi, superiori a due-tre settimane. L’ultimo aspetto negativo è la presenza di sintomi come nausea, alito cattivo (alitosi da acetone), crampi e stitichezza (da disidratazione), stanchezza e difficoltà respiratorie.
L’altra importante dieta degli anni ’90 è la dieta a zona, proposta nel 1995 dal biochimico statunitense Barry Sears. In questo regime le proporzioni tra i tre macronutrienti energetici – carboidrati, proteine e grassi – sono modificate per raggiungere uno stato fisico migliore. Rispetto alle indicazioni internazionali i carboidrati scendono dal 55% al 40%, le proteine salgono dal 15-20% al 30%, i grassi rimangono intorno al 30%. La riduzione del grasso corporeo in eccesso dovrebbe avvenire per il controllo dell’insulina, legata secondo Sears all’assunzione di calorie in eccesso provenienti dai carboidrati.
La dieta a zona e le altre diete iperproteiche non spiegano come mai le popolazioni che consumano molti carboidrati – come quella italiana – hanno tassi di obesità, diabete e tumori del tratto digerente molto più bassi degli statunitensi. Forse la qualità del cibo che mangiamo è più importante delle formule percentuali dei nutrienti. Intanto, alla fine degli anni ’90 l’obesità statunitense era passata dal 15% al 31%: in 20 anni era raddoppiata, nonostante il proliferare di diete, più o meno basate su evidenze scientifiche e studi di popolazione, gli unici elementi che dovrebbero giustificare la proposta di modelli alimentari.
A metà anni ’90 Peter J. D’Adamo – naturopata statunitense – pubblicò il libro Mangia in modo sano in base al tuo gruppo (sanguigno) in cui – riprendendo un’idea del padre James – proponeva la dieta dei gruppi sanguigni.
Per D’Adamo l’evoluzione dei 4 principali gruppi sanguigni sarebbe collegata alle abitudini alimentari dei nostri avi. Essendo il gruppo 0 il gruppo sanguigno più antico, chi ne è dotato dovrebbe dare molto spazio alla carne; il gruppo A, invece, in quanto espressione della rivoluzione neolitica che portò all’agricoltura, avrebbe bisogno maggiormente di frutta e verdura; carne e prodotti del latte sarebbero i cibi più adatti al gruppo B, erede dei nomadi pastori di 10.000 anni fa; più complessa, infine, la dieta del gruppo AB, il più recente e il più raro, comparso solo 1000-1200 anni fa con la fusione di popolazioni di sangue A e B. Le basi scientifiche di questa dieta e dei suoi presupposti sono pari a zero.
Dopo la pseudo-scienza di D’Adamo il millennio si chiuse con il boom – nel 2000 – del crudismo e delle diete crudiste (raw food), per le quali sarebbe poco salutare tutto il cibo portato a temperature oltre i 42°: nessuna cottura, allora, per non compromettere vitamine, sali minerali e altri nutrienti presenti nel cibo. Le critiche a questa impostazione sono facili: ricordiamo solo che senza cottura non è possibile mangiare cereali, legumi, patate e castagne; la mancanza di cottura, inoltre, aumenta enormemente il pericolo di tossinfezioni alimentari da virus, batteri, muffe e parassiti.
Il primo decennio del nuovo millennio è stato soprattutto segnato dal successo planetario della dieta Dukan (2011), il regime iperproteico ideato dal medico francese Pierre Dukan, poi radiato dall’Ordine
Segue la dieta delle sirtuine, o dieta del gene magro. Basata su studi condotti ad inizio millennio, il successo è arrivato nel 2016 con l’uscita del libro di due nutrizionisti inglesi A. Goggins e G. Matten, (Sirt, la dieta del gene magro, 2016) e con la grande pubblicità dei 30 chili persi dalla cantante Adele. La dieta Sirt dà spazio a cibi ricchi di polifenoli, molecole vegetali in grado di attivare le sirtuine, enzimi che simulano gli effetti della restrizione calorica e dell’attività fisica. Secondo gli autori seguendo questo regime si perderebbe solo grasso, lasciando intatto il muscolo, poiché i cibi Sirt imitando gli effetti del digiuno, stimolerebbero i cosiddetti geni magri. I polifenoli che aiuterebbero questo meccanismo sono diversi: resveratrolo (vino rosso), catechine (cacao fondente e tè verde); acido gallico (noci e caffè), acido clorogenico (caffè), apigenina (sedano e prezzemolo), luteolina (radicchio, sedano e peperoncino); miricetina (peperoncino e prezzemolo); quercetina (cipolle rosse, cavoli, rucola e capperi), kaempferol (cavoli, rucola e capperi), fisetina (fragole), oloreupina e idrossitriosolo (olio d’oliva); altri polifenoli, infine, provengono da soia, curcuma e datteri. Che dire di questa dieta? Sicuramente sembra positiva l’indicazione di tantissimi cibi vegetali, caratteristici della dieta mediterranea; molto discutibile, invece, l’indicazione del vino rosso, sia per la pericolosità accertata dell’alcol etilico sia per la sopravvalutazione del resveratrolo, capace di azioni benefiche solo a dosi massicce non prive di effetti collaterali. Come altre diete del passato, la dieta delle sirtuine utilizza uno studio scientifico serio (effettuato, però, su lieviti, insetti e topi) e ne trae conclusioni prive di qualsiasi riscontro o evidenza, ma capaci di generare grandi profitti e grande risonanza sui social: l’ennesima dieta alla moda, in inglese fad diet.
Il termine “salutismo” viene utilizzato in due modi diversi.
Nell’accezione più neutra o positiva, si riferisce semplicemente alla cura di sé, e se si fa una ricerca sul web per “salutismo”, alcuni dei siti che si trovano offrono semplicemente informazioni su alimentazione, esercizio fisico, rimedi casalinghi, e cose del genere.
Ma il termine ha anche un’accezione più negativa, quando ad esempio si riferisce a quell’ insieme di atteggiamenti e convinzioni secondo cui la salute è l’obiettivo più importante della vita, è una responsabilità personale dell’individuo e rientra esclusivamente nel suo controllo. Chi aderisce a queste convinzioni considera la ricerca della salute, spesso confusa con la magrezza, come un bene morale.
Il termine salutismo è stato usato con questa accezione negativa per la prima volta nel 1980 da Robert Crawford nell’ articolo “Healthism and the medicalization of everyday life (Il salutismo e la medicalizzazione della vita quotidiana)” pubblicato nell‘International Journal of Health Services: Planning, Administration, and Evaluation.
Egli definisce il salutismo come “la preoccupazione per la salute personale come un obiettivo primario, spesso il principale, per la definizione e il raggiungimento del benessere; un obiettivo che deve essere ottenuto principalmente attraverso la modifica degli stili di vita, con o senza aiuto terapeutico”
E ancora sostiene sostiene che “… il salutismo colloca il problema della salute e della malattia al livello dell’individuo. Anche le soluzioni sono formulate a questo livello. Nella misura in cui il salutismo modella le credenze popolari, continueremo ad avere una concezione e una strategia di promozione della salute non politica e quindi, in ultima analisi, inefficace. Inoltre, elevando la salute a supervalore, metafora di tutto ciò che è buono nella vita, il salutismo rafforza la privatizzazione della lotta per il benessere generalizzato. …”
Secondo Crawford, quindi, il salutismo implica che la salute sia una questione individuale, un valore primario e un indice morale: in pratica, se ti ammali, è colpa tua.
Sempre in questo articolo Crawford sostiene anche che il salutismo risponda alla crescita, negli anni ’70, di vari movimenti per la cura di sé, come la medicina olistica e la medicina alternativa, quale reazione nei confronti della medicina occidentale tradizionale e convenzionale. Ma questi movimenti e il salutismo, sono anche probabilmente parte di un più lungo spostamento storico verso la medicalizzazione come modo di gestire le popolazioni, verso il pensare a tutto in termini di sano o malsano, dove questi termini diventano praticamente sinonimi di buono e cattivo.
Così le persone vengono giudicate in base alla loro salute: quelle che si impegnano in privazioni, come le diete, i digiuni, la depurazione, sono considerate buone e morali. Tutti gli altri sono visti come dei falliti e come degli individui moralmente inferiori.
E ciò perchè il salutismo non riconosce che la salute di ogni individuo sia influenzata anche da questioni biologiche, sociali, culturali e ambientali come la genetica, la povertà, la mancanza di accesso alle cure mediche, la violenza, i traumi, l’ambiente, la cultura della dieta nonchè le discriminazioni e le oppressioni di tutti i tipi, come l’abitudinarietà, il razzismo, il sessismo, la transfobia, l’omofobia, la fobia del grasso e lo stigma del peso.
Anche altri studiosi hanno collegato l’ascesa del salutismo a sviluppi storici più ampi, tra cui la globalizzazione neoliberista. La ricercatrice australiana Julianne Cheek, in un saggio intitolato “Healthism: A New Conservatism? (Salutismo: un nuovo conservatorismo?)”, osserva che “…La salute è diventata la nuova fonte della giovinezza, la promessa della “perfezione potenziale” una nuova versione dell’eterna ricerca dell’immortalità e una nuova forma di distintivo d’onore con cui possiamo affermare di essere responsabili e degni sia come cittadini che come individui. Così, in molte società occidentali contemporanee la salute si avvicina allo status sacro…. Quotidianamente, i governi e gli individui parlano di perseguire la salute e/o stili di vita sani, di raggiungere la salute, di avere la responsabilità e/o di essere responsabili nei confronti della salute…”
E ancora in una recensione del libro del libro del 1994 The Death of Humane Medicine and the Rise of Coercive Healthism, di Petr Skrabanek, il giornalista inglese Bryan Appleyard riassume il problema, scrivendo sul quotidiano britannico The Independent che “… tutta la nostra vita, anche in totale assenza di malattia, è implicata nella ricerca di una salute più perfetta e di una maggiore longevità. Non dobbiamo fumare o frequentare fumatori, bere troppo, mangiare grasso, respirare l’aria estiva delle città, praticare sport pericolosi e, naturalmente, dobbiamo fare esercizio fisico per recuperare uno stato di forma aborigena. I medici sono diventati i sacerdoti di questo nuovo culto dell’aspirazione senza fine. Esaminano, controllano e mettono in guardia i sani, rimproverano i malati e danno lezioni a tutti noi sui molteplici errori dei nostri modi. Tutto può essere, come dice Skrabanek, “medicalizzato”, ogni atto può avere implicazioni per la salute e può, quindi, far parte del nostro dossier sullo stile di vita che viene compilato da qualsiasi angelo registratore che abita il paradiso salutista. Questo non è solo irritante. In un momento di riflessione radicale sul finanziamento dell’assistenza sanitaria, può anche essere pericoloso. …”
Visto che già anni fa nel Regno Unito, il Servizio Sanitario Nazionale ha proposto di rifiutare le cure ai fumatori e a coloro che sono classificati come “obesi” al fine di ridurre la spesa sanitaria, forse gli interventi al cuore saranno limitati solo a coloro che si allenano e sono a dieta?
Anche negli USA ricordiamo che il fondatore e CEO di Whole Foods, John Mackey, si è scagliato contro l’ opzione di assicurazione sanitaria pubblica all’interno della Riforma santitaria affermando che l’America il paese non era in una posizione finanziaria per creare un nuovo enorme diritto all’assistenza sanitaria e che se tutti mangiassero solo i cibi giusti, si potrebbevivere senza malattie fino a 90 anni. Piuttosto che aumentare la spesa e il controllo del governo, dobbiamo affrontare le cause profonde della cattiva salute. Questo inizia con la consapevolezza che ogni adulto americano è responsabile della propria salute. Ma siamo sicuri che in questo modo non volesse solo sponsorizzare l’acquisto dei suoi costosissmi prodotti biologici?
E ancora, la ricercatrice australiana Dorothy Broom, in un saggio intitolato “ Hazardous good intentions? Unintended consequences of the project of prevention (Buone intenzioni pericolose: conseguenze indesiderate del progetto di prevenzione)”, osserva che anche se “l’analisi sociologica più sommaria identifica i [fattori] ambientali e la classe, la cultura, l’etnia, il genere e la geografia come elementi dell’identità sociale e delle relazioni sociali che sono significativamente correlati con la distribuzione della salute e della malattia”, e anche se “la maggior parte di ciò che è necessario per la prevenzione delle malattie” non comporta “singoli ‘fattori di rischio’”, ma interazioni complesse incorporate nelle relazioni sociali e negli ambienti, – ciononostante, “le teorie della salute e della prevenzione delle malattie sono ricche di termini che sembrano significare la centralità del comportamento individuale. Parole come ‘abitudini personali’, ‘scelta’ e ‘stile di vita’ sono prontamente applicate a persone che sono [quindi presentate come] individui apparentemente isolati”.
La solita scusa, continua la Broom, è che “i fornitori di servizi sanitari e i politici [trovano troppo difficile] intervenire su elementi come l’economia, la progettazione urbana o la disuguaglianza culturale e socioeconomica… [di conseguenza,] l’opzione predefinita dell’individuo come autore del proprio destino viene costantemente ripristinata”.
Infine, Broom conclude che l’assistenza sanitaria contemporanea (compresa la prevenzione) non è riuscita a ridurre le disuguaglianze in materia di salute: “La maggior parte dei fattori di rischio per la salute è distribuita in base alla posizione socioeconomica: le persone con meno ricchezza, redditi più bassi, lavori peggiori, meno istruzione e che vivono in quartieri poveri hanno maggiori probabilità rispetto alle loro controparti di manifestare rischi per la salute e uno stato di salute compromesso”.
Anche laddove l’accesso all’assistenza sanitaria è diffuso, come nel Regno Unito, i miglioramenti generali della salute e la promozione dell’educazione sanitaria non hanno ridotto le disuguaglianze sanitarie. Ma immaginate quanto potrebbe essere diversa la nostra politica sanitaria pubblica se fosse diretta meno a modificare i comportamenti individuali e più a ridurre le disuguaglianze socioeconomiche.
Ciò non significa che possiamo stare tutto il giorno seduti a fumare, bere e mangiare cibi elaborati, a non fare movimento e non prendersi cura di noi stessi, bensì significa che concentrarsi solo sui fattori semplicistici e individualizzati che influenzano la salute non solo ci rende ciechi di fronte ai fattori complessi che determinano i vari aspetti della salute, ma può anche essere controproducente nei suoi termini ristretti, oltre che non etico e ingiusto.
“Healthism”: A Neoliberal Version of Wellness by Frann Michel
We Have to Stop Thinking of Being ‘Healthy’ as Being Morally Better by Aubrey Gordon
Healthism: When a focus on healthy living becomes problematic
Nella nostra società così piena di stereotipi, il Thin Privilege, ovvero il privilegio di essere magri, altro non è che una manifestazione della Grassofobia!
Siamo continuamente bombardati da messaggi e immagini che esaltano determinati corpi, di solito magri e/o muscolosi, e che esplicitamente o implicitamente, denigrano gli altri. Oltre a saturare il panorama mediatico, gli ideali di taglia o forma del corpo vanno oltre l’estetica, dal momento che avere un tipo di corpo socialmente desiderabile e celebrato può comportare alcuni vantaggi non meritati.
Quindi, i benefici e la libertà dalla discriminazione associati all’avere un corpo più magro in una società che colpevolizza i grassi sono definiti Thin Privilege, privilegio della magrezza.
Ad esempio, poiché la società apprezza la magrezza, le persone con un corpo snello possono godere di vantaggi sociali, come fare amicizia più facilmente, e accedere a vantaggi strutturali, come trovare abiti alla moda in più negozi e posti a sedere di dimensioni adeguate sui mezzi pubblici.
Secondo alcuni studi sull’accettazione del corpo, le persone più magre spesso non sono consapevoli del fatto che la loro taglia comporta dei vantaggi e che le persone con un corpo più grande sono emarginate.
Sebbene le persone di tutti i generi subiscano gli effetti del Thin Privilege, la società tende a fare pressione soprattutto sulle donne affinché dimagriscano e si impegnino a mantenere un aspetto socialmente desiderabile. Alcuni studi sostengono anche che l’adeguamento all’ideale di magrezza può influire sul successo delle donne in molteplici aspetti della loro vita.
Il privilegio della magrezza non solo comporta svantaggi e vere e proprie discriminazioni nei confronti delle persone di corporatura più grossa, ma giudica ingiustamente anche coloro che non rientrano nell’ideale di magrezza. Il Thin Privilege è strettamente legato al salutismo, che considera lo stato di salute come una scelta personale basata sulle abitudini di vita e sostiene erroneamente che le dimensioni maggiori del corpo siano una caratteristica modificabile che aumenta il rischio di problemi di salute.
Nonostante le dannose idee sbagliate sul rapporto tra peso e salute, è dimostrato che avere un corpo grasso non è intrinsecamente poco salutare o dannoso. Uno studio recente ha rilevato che, indipendentemente dal loro peso, le persone fisicamente inattive hanno un rischio più elevato di morte per qualsiasi causa rispetto alle persone attive.
A parte il fatto che un peso corporeo più elevato non implica uno stato di salute precario, essere magri non equivale automaticamente a una salute ottimale. Alcune persone con un corpo magro possono essere fisicamente attive e consumare una dieta adeguata. Al contrario, altre possono avere un peso ridotto perché hanno fatto ricorso a un esercizio fisico eccessivo e a una dieta restrittiva per cercare di conformarsi all’ideale di magrezza.
Quando si parla del rapporto tra Thin Privilege, peso corporeo e stato di salute, è importante ricordare che il concetto di salute è complicato, per certi aspetti soggettivo e influenzato da vari fattori. Alcuni individui non saranno mai considerati “sani” secondo gli standard tradizionali a causa di malattie croniche o disabilità. Alcune persone di corporatura più grande possono avere maggiori problemi di salute non a causa delle loro dimensioni, ma a causa delle loro esperienze di disordini alimentari, di diete croniche e di stress minoritario dovuto al fatto di vivere in un ambiente estremamente anti-grasso.
Indipendentemente dalla taglia o dallo stato di salute, tutte le persone meritano l’accesso a cure mediche competenti, il rispetto e la libertà dallo stigma nei confronti del proprio corpo.
In definitiva, gli standard culturali che valorizzano i corpi magri possono portare le persone a prendere misure estreme per accedere al privilegio della magrezza. Le persone che non rientrano nell’ideale di magrezza possono ricorrere a diete restrittive e all’esercizio fisico eccessivo per cercare di modificare il proprio peso corporeo. Con il tempo, questo può portare allo sviluppo di disturbi alimentari, che possono causare malnutrizione e altri rischi significativi per la salute delle persone di tutte le taglie. Sfortunatamente, gli studi hanno costantemente dimostrato che le persone che interiorizzano l’ideale di magrezza sono a maggior rischio di disturbi alimentari.
Il privilegio della magrezza non solo promuove la discriminazione di chi ha un corpo grasso, ma espone le persone a un rischio maggiore di disturbi alimentari, che possono passare inosservati a causa dell’errata convinzione che la magrezza e la perdita di peso siano sempre positive, indipendentemente dalle circostanze. Il privilegio della magrezza danneggia tutta la società, poiché limita le opportunità per le persone di corporatura più grande e trasmette il messaggio che è accettabile utilizzare metodi pericolosi per raggiungere o mantenere un corpo magro.
[Squeezed between identity politics and intersectionality: A critique of ‘thin privilege’ in Fat Studies by Nash, M., & Warin, M. (2017)]
[‘I’m totally smart and a feminist…and yet I want to be a waif’: Exploring ambivalence towards the thin ideal within the fat acceptance movement’ by Donaghue, N., & Clemitshaw, A. (2012)]
[Impact of weight bias and stigma on quality of care and outcomes for patients with obesity by Phelan, S. M., Burgess, D.J., Yeazel, W. L., Hellerstehdt, J.M., & van Ryn, M. (2015)]
[Body Weight Bias in Hiring Decisions: Identifying Explanatory Mechanisms by Grant, S., & Mizzy, T. (2014)]
[Does the fat-but-fit paradigm hold true for all-cause mortality when considering the duration of overweight/obesity? Analyzing the WATCH (Weight, Activity and Time Contributes to Health) paradigm by Dankel, S. J., Loenneke, J. P., & Loprinzi, P. D. (2016)]